venerdì 31 ottobre 2008

Un'altra vita

Racconto selezionato per l'antologia "Nuovi Autori Science Fiction" - NASF - Numero 4. (Comunicato organizzatori: NASF 4)

Ripenso spesso al giorno in cui me ne andai.
Ancora oggi, non saprei dire perché mai, nel pieno di una notte insonne, mi balenò in testa l’idea di partire, lasciare tutto e tutti, e cambiare completamente la mia vita.
Non c’era davvero un motivo preciso.
In fondo io a casa mia ci stavo più che bene. Le mie giornate erano abbastanza monotone, questo è vero, e la temperatura a volte era insopportabile per uno che, come me, a quel caldo infernale non aveva mai fatto l’abitudine.
A volte penso che, semplicemente, mi trovavo nel posto sbagliato.
E allora, quando me ne sono accorto, devo aver deciso di mettermi in marcia, per trovare il luogo dove sarei stato felice. Felice come se ci fossi nato e poi ci fossi vissuto felice di esserci nato.
Felice.
Ecco, deve essere così che è andata. Volevo sentire in me qualcosa che a casa non mi era mai riuscito, e che nei miei amici laggiù invece vedevo, beati loro.
Deve essere per questo che succedono certe cose. Vivi la tua vita e un bel giorno, bam! Se hai il coraggio di non chiudere gli occhi, ti accorgi che non è quella giusta e cominci a cercare. Ammesso in effetti che il termine, vita, sia quello corretto per l’esistenza che conducevo io a quel tempo.
Il problema è che non hai la più pallida idea di quale sia quella giusta. E così, una volta che hai cominciato, rischi di girare per secoli senza trovare niente di meglio. D’altronde, non era certo il tempo che a me mancava.
Comunque sia, ti convinci presto che cercare qualcosa di meglio è meglio che accettare quel che non vuoi più. Non so se mi spiego.
Quando lo raccontai ai miei amici, loro mi dettero del pazzo.
Lucy, Aleppo, Andreina, persino la piccola e dolce Fiammella. Quando dissi loro dove volevo andare a cercarla, la mia nuova vita, tentarono in tutti i modi di dissuadermi. Mi parlarono di insidie, pericoli, ostacoli a non finire.
-Sono dei bastardi quelli!- aveva persino gridato il caro Asmodeo, nella misura in cui gli era permesso dalla voce rauca da vecchio fumatore incallito.
Roba da far impallidire quelli che noi consideravamo i normali problemi della nostra quotidianità. Un conto, mi dicevano, è andare lassù per lavoro, e un altro è trasferirsi!
Era una vera follia. Perfetto dunque, proprio ciò di cui avevo bisogno.
Il primo problema che dovetti affrontare fu il mio aspetto. Non potevo certo andar lì come nulla fosse, e pretendere di essere accettato dalla gente. Fu una regola che mi imposi da subito: niente apparizioni, niente ricatti, nessun effetto speciale. E soprattutto, nessun patto con chicchessia.
La storia è piena di simili tentativi finiti male, molto male.
Dovevo prima rendermi il più possibile simile a loro, e non sapevo se avrei avuto qualche speranza di farcela. Ma era tale il mio desiderio, che le provai tutte, quando proprio fra gli abitanti del posto trovai chi era disposto a darmi una mano, naturalmente dietro cessione di una notevole quantità di soldi. All’inizio le mie fattezze spaventavano quella gente, poi, quando capivano che non c’era nulla da temere da uno con il mio carattere, e soprattutto dopo che avevano visto il contante, finivano sempre per sopportare di buon grado la mia presenza.
Ero preparato; conoscevo bene le loro debolezze; dopotutto, la mia professione mi aveva portato ad accumulare una notevole esperienza in tal senso.
Si trattava di lavorare, per così dire, su alcuni elementi particolarmente appariscenti, che avrebbero destato sospetti e risvegliato antichi pregiudizi.
Il chirurgo si rifiutò di darmi garanzie, ma mi disse che, se un giorno ci avessi ripensato, avrebbe potuto cercare di rimettere tutto a posto come prima. Ma io non sentivo di aver bisogno di una simile rassicurazione; a quel tempo volevo davvero tagliare tutti i ponti con il passato.
Lo ringraziai comunque per quella premura.
Per i primi giorni me ne dovetti andare in giro sorretto da una stampella e con una vistosa fasciatura intorno alla testa. Ancora però non avevo dolore, benché la lesione alla mia identità fosse evidente. Su ogni spalto, balaustra o ringhiera, dovevo sempre ricordare la mia nuova situazione, e lottavo con istinti ancestrali per costringermi a scegliere la via di terra.
Non potete immaginare quante volte, all’inizio, caracollai rovinosamente sul suolo prima di realizzare appieno che l’unico modo per potermi muovere erano le mie gambe, così sottili, e pensate al più per mantenere la posizione eretta in condizioni di riposo.
Penserete che chiamarle gambe è un eufemismo, ma il rispetto e la stima che ancora nutrivo per i nativi del luogo mi costringevano a rendere appropriato anche il mio vocabolario. Insomma, di quelle non mi preoccupavo troppo, dopotutto con quel clima freddo avrei sempre portato i pantaloni e nessuno ci avrebbe fatto mai caso.
Evidentemente dovevo ispirare molta pietà a tutti, perché ovunque andassi, in autobus, nei ristoranti, mi lasciavano sempre un posto per sedermi e si offrivano di aiutarmi. Era quello il loro lato buono, e non capii che si trattava di mera apparenza.
Poi c’era il problema del denaro, naturalmente, al quale però avevo pensato già prima di trasferirmi definitivamente. Averne a sufficienza era quanto mai opportuno, per non dire necessario.
Nelle mie ultime trasferte di lavoro avevo, diciamo così, forzato un po’ la mano a un paio d’amici, un killer professionista ed un rapinatore dalla mano pesante, e potevo quindi vantare un discreto conto in banca. Inoltre, con la mia ormai lunga esperienza in fatto di finanza creativa, avevo provveduto a farmi rilasciare una mezza dozzina di carte di credito.
Vi starete domandando come abbia potuto assumere un’identità a cui fatturare tutti questi servizi. Be’, pensate davvero che per uno come me fosse difficile? Dovevo solo essere molto attento ad utilizzare qualcuno che non fosse troppo in vista, qualcuno che nessuno avesse voglia di cercare.
Un reietto, uno dimenticato dal suo mondo, per trascuratezza, per superficialità, senza neanche un briciolo d’odio; uno così poco importante da non meritare nemmeno d’esser diseredato.
Uno come me.
Scelsi un giovane molto simpatico, ormai depresso cronico a causa della malattia incurabile. Aveva lasciato la sua famiglia in un altro paese, senza dir loro nulla, e viveva ai margini della società cosiddetta civile.
Ora che ci ripenso, era davvero un bravo cristo.
Da allora mi chiamai John.
John Johnson.
Cosa posso farci? Erano quelli, il suo nome e il suo cognome, e unica ragione del suo trapasso al mio cospetto.
Non gli feci male. Ho sempre detestato la violenza in ogni sua forma. Lui voleva morire, ed io lo accontentai. Pensate che quando mi vide e capì che razza di tipo fossi, disse che nel posto in cui lo avrei mandato finalmente ne avrebbe viste delle belle, e che gli stavo facendo davvero un gran favore, e che poteva smettere di pregare il suo dio.
Bah.
Io invece non sarei mai tornato laggiù, e per niente al mondo. Doveva essere una questione di punti di vista.
Più i giorni passavano, più speravo di abituarmi a quel clima, che trovavo ancora decisamente piuttosto freddo per la mia primitiva biologia corporea. E’ strano a dirsi, ma devo ammettere che il caldo di casa, proprio quel caldo secco che avevo sempre detestato, a tratti, e in qualche modo, mi mancava. Immaginai che al mio fisico sarebbe occorso ben più di qualche giorno per adattarsi.
Per non parlare degli sbalzi termici fra giorno e notte. Indecenti.
Per fortuna, riuscivo a riscaldarmi abbastanza, grazie al cappotto in cui nascondevo le ferite dell’intervento chirurgico, e le fasciature che ancora proteggevano le numerose cicatrici da virus e batteri. Prima o poi dovevo decidermi a perdere quel senso di vergogna che mi faceva sentire ancora un diverso, ma non potevo nemmeno essere troppo avventato.
Prudenza, amici, ci voleva prudenza.
Non vi nascondo che le ferite mi davano uno sgradevole senso di fastidio che sapevo si sarebbe presto tramutato in autentico dolore; soprattutto all’osso sacro. Mi rifiutavo sistematicamente di poggiare il mio di dietro su sedie di legno o metallo che non fossero addolcite da uno strato di stoffa sufficientemente alto e morbido. Ricordo che mi comprai perfino un piccolo cuscino, che tiravo fuori al momento opportuno.
Dopo un paio di settimane iniziai a far a meno della benda che mi avvolgeva la testa. Potete immaginare le battute idiote della gente alla vista dei due grossi lividi che avevo in fronte, che avevo tenuti ben celati fino a che c’era stato del sangue. E che sangue, il nostro. Rosso come il fuoco.
Cominciai a grattarmeli continuamente; doveva essere un tic nervoso. Quando da un giorno all’altro ti tolgono qualcosa che hai sempre sentito tuo, istintivamente continui a cercarlo, un po’ per abituarti alla nuova condizione, un po’ perché in fondo in fondo c’è una parte di te, nell’inconscio, che si oppone sempre e comunque al cambiamento.
Ma certo, che ce l’ho anch’io un inconscio. E bello sviluppato, per fortuna.
Dovetti cercarmi una casa.
Da quelle parti vagabondi, nomadi e senza tetto sono guardati con diffidenza, e di buone ragioni per essere emarginato come un povero disgraziato io ne avevo già abbastanza di mio; per fare più in fretta mi rivolsi quindi ad un’agenzia immobiliare.
Scelsi un vecchio seminterrato quasi abbandonato in periferia, una via di mezzo fra una cantina dismessa ed un box per automobili, che fino a poco tempo prima era stato il ricovero di un gruppo di profughi clandestini che ci erano vissuti in sette. Ci faceva talmente caldo che ci stavo bene, e poi era il modo migliore per non dare nell’occhio. C’era sempre tempo per progredire nella gerarchia sociale, e io volevo iniziare dal basso.
Non c’era molta luce, ma per me quella non era certo una novità.
Avrei potuto pagare in contanti l’intera somma, ma per la già citata esigenza di discrezione preferii seguire la via della gente comune, e mi rivolsi ad una banca per ottenere un mutuo.
Ne scelsi una a caso, una piccola filiale a soli tre isolati dalla mia futura casa.
Mi imbattei presto in un problema che mi doveva accompagnare per molto tempo ancora: non riuscivo ad entrare a causa della cellula fotoelettrica della porta automatizzata all’ingresso.
Quella maledetta fotocellula non mi vedeva. Ero ancora troppo diafano. E così, approfittando del fatto che la cabina di controllo poteva ospitare due persone contemporaneamente, ogni volta che dovevo entrare ero costretto ad appostarmi in attesa che dovesse entrare qualcun altro, e lanciarmi in una vorticosa rincorsa del nuovo avventore per abusare della sua gentilezza e prodigarmi in scuse mentre invadevo con la mia goffaggine quello spazio angusto.
Potete figurarvi come il poliziotto di guardia osservasse la scena, anche considerato che indossavo un pesante cappotto invernale nel tiepido periodo primaverile. Durante la scansione di sicurezza, aveva occhi solo per me. Dopo un po’ ci fece l’abitudine e non ci badò più.
Anzi, alla quarta volta che mi recai lì scambiammo anche due chiacchiere, e io gli imbastii una storia inverosimile che mi vedeva reduce dalla guerra appena finita, costretto a nascondere le mie ferite, che lui, senza manco averle viste, definì onorevoli, Non sapevo nemmeno io a quale guerra mi riferissi, ma sapevo che ce n’era sempre una a cui lui avrebbe pensato.
Joseph, così si chiamava il brav’uomo, mi esortò a scoprirle e mostrarle con orgoglio, e io lo ringraziai e gli dissi che ci avrei pensato. Aggiunsi che quando avessi deciso lui sarebbe stato il primo ad avere questo piacere, e lui replicò che sarebbe stato un onore.
Ricordo come scandì le sillabe di quella parola: o-no-re. Gli uomini danno valore a cose strane e lo tolgono a quelle più ovvie.
Una volta entrato, ricordo che ebbi a che fare con un giovane rampante funzionario addetto alla concessione di mutui, prestiti, e finanziamenti di ogni tipo. Nell’attesa che arrivasse il mio turno, lo vidi cacciare a male parole prima una vecchietta sotto sfratto e poi un invalido civile che non aveva più soldi per pagare l’avvocato nella causa che aveva intentato contro la banca; qualche minuto dopo, lo osservai mentre accettava la proposta sessuale di una giovane donna sposata da poco, e disposta a tutto pur di non subire un ulteriore aumento del tasso di debito.
Mi guardai in giro per scrupolo, ma come sospettavo non c’erano i miei ex-colleghi a fomentarlo. Li avrei visti, se fossero stati lì, ma sapevo che la maggior parte di noi non fanno questo genere di cose, e infatti quella era tutta farina del suo sacco.
Un vero autodidatta. E poi dicono male di noi.
Avevo ancora qualche residuo delle mie vecchie facoltà, per cui ora posso confessare che diedi una mano a quei malcapitati, dopo che si furono allontanati. So che ancora oggi i primi due vivono felici nella loro casa, e ricevono una discreta pensione integrativa, mentre la donna è riuscita a far cuocere il tizio al punto tale che quello le ha bloccato il tasso al minimo possibile, e poi le ha abbonato l’ultimo anno. E senza nemmeno andarci a letto.
Insomma, il mutuo fu concesso anche a me, e per giunta con ottime condizioni di dilazione e rateizzazione, e così divenni un soddisfatto proprietario immobiliare. Cominciavo davvero a sentirmi un cittadino come gli altri e ne ero persino orgoglioso.
Ingenuità del principiante.
Dopo qualche giorno mi recai in un ufficio postale per spedire alcune lettere che avrebbero accompagnato un ambiguo curriculum vitae verso i grandi palazzi del potere e della finanza; volevo cercarmi un lavoro. Così, avrei saldato ogni debito sociale e culturale verso la mia nuova patria.
Manco a farlo apposta, cinque minuti dopo il mio ingresso apparvero quattro tizi imbavagliati e armati fino ai denti; uno di loro era imbottito di esplosivo. Gridavano di star fermi, contro le pareti. Io ero abbastanza tranquillo, di scene così ne avevo viste tante, e fu forse per questo che i rapinatori scelsero me come ostaggio.
Si fecero scudo di me, nel vero senso della parola. All’uscita, mi beccai la pallottola silenziata di un cecchino, ma i rapinatori nemmeno se ne accorsero. E nemmeno io, sulle prime, ad esser sincero. Mi sbatterono nel loro furgone e partimmo a tutta birra; dopo pochi chilometri cambiammo automezzo, ma vollero tenermi con sé.
Capii che avevano un appuntamento.
L’auto che avevano preso, una veloce Mercedes nera, accostò all’improvviso in una piazzola nel deserto.
Dannate coincidenze.
Ad attenderci, avvolto in un impermeabile, c’era Joseph, il brav’uomo, il poliziotto della mia banca. Chissà dove era finito il suo senso dell’onore. Mi riconobbe subito, credo più dalla mia andatura zoppicante e dall’aria malferma, che dalle mie fattezze fisiche, e notai come fosse mutato il suo giudizio dalle mie onorevoli ferite, quando si rese conto che la sua banda aveva preso un ostaggio che poteva avere seccanti difficoltà di movimento.
Disse che sarebbe stato difficile trovare un ostaggio più misero e inutile, e che dovevo star sempre zitto e obbedire ai loro ordini, altrimenti mi avrebbe tolto tutte le bende e avrebbe urinato sulle mie onorevoli ferite.
Tacqui, mentre nella mia mente alcune vecchie parole abbandonate acquistavano per me il loro senso più vero: delusione, amarezza, sconforto.
Solitudine.
Joseph aveva una faccia pulita, non lo avrei mai creduto capace di tanto. E volete saperne una? Alzai lo sguardo sulle dune intorno, e vidi un ex-collega dei piani alti. Ma sì, uno di quelli vestiti di tutto punto, di un bianco sgargiante, con quel sorriso stolido da ebefrenico che rappresenta il loro marchio di fabbrica. Era il suo custode, lo capii subito. Quell’idiota pensava che prima o poi l’uomo si sarebbe redento, e secondo la sua ferrea logica, doveva proteggerlo!
Non sto a dirvi il modo in cui mi guardava, l’imbecille; avesse avuto tempo, mi avrebbe sfornato un predicozzo fresco di stagione.
A volte ripenso alla nostra storia, agli albori della cosiddetta civiltà, e vado fiero delle scelte che fece lo zio Lucio. Un taglio netto con tutta quella beata ipocrisia.
Colletti bianchi. Bleah!
Mentre ci recavamo tutti insieme nel posto in cui avrebbero nascosto la refurtiva, sentii che quella maledetta pallottola mi faceva male. Iniziavo a comprendere appieno il significato del dolore fisico; dunque stavo davvero diventando uno di loro, e presto il mio corpo avrebbe avuto un impellente bisogno di un medico.
Giungemmo al vecchio Monastero sulla montagna; era lì che avrebbero nascosto i sacchi con il denaro, i titoli al portatore, i buoni, i lingotti e tutto il resto. Immaginai che il bianco custode del capo banda avesse messo una buona parola con i frati, pur di guadagnare la sua presunta redenzione.
Avevo decisamente visto troppo.
Mentre fitte lancinanti cominciavano a turbare prepotentemente i centri nervosi che non sapevo nemmeno di aver sviluppato, fui colto dal panico. Fu uno shock improvviso: realizzai che follia stessi compiendo, ripensai alle parole dei miei amici, mi sentii un idiota suicida e dentro di me nacque e crebbe irrefrenabile il desiderio di tornare sui miei passi e fare rientro a casa.
Il desiderio dovette essere davvero intenso, perché come usavo regolarmente fare quando ero in servizio attivo, scomparvi dall’auto e mi ritrovai nel mio box-appartamento.
Ricordandomi le sue parole, rintracciai il chirurgo che mi aveva aiutato inizialmente e mi feci curare. Poi gli dissi che in effetti volevo tornare indietro, e che lo avrei pagato profumatamente per riavere tutto quel che gli avevo chiesto di togliermi solo qualche settimana prima.
Lui si mostrò sinceramente imbarazzato, e disse che avrebbe fatto del suo meglio. In realtà, aveva già venduto buona parte delle mie cose a sedicenti collezionisti dai gusti che non esitai a definire dubbi, e che rinforzarono i miei propositi di dimenticare quel luogo infame che era la società degli uomini.
Non fui così sorpreso di quel comportamento così ambiguamente umano e mi adattai a quelle che lui definì le ‘misure d’emergenza’ che intraprese. Al pensiero di possibili ritorsioni da parte mia, si prese un grosso spavento, e quindi mi assicurò che sarei potuto tornare da lui più avanti, e che nel frattempo sarebbe certamente tornato in possesso di tutto quel che avrebbe potuto.
Senza mezzi termini, gli dissi che sarebbe stato meglio per lui.
Il giorno che feci rientro Lucy mi gettò le braccia al collo, e mi disse che gli ero mancato moltissimo. Credo che si fosse innamorata di me.
Ormai ero tutto un dolore, dalle zampe alle corna, e la scongiurai di far piano, quando, non aspettandoselo, urtò contro la goffa ala di cicogna che il medico aveva dovuto impiantarmi. Misure di emergenza. Era così bianca, soffice e rigida, uno spettacolo insulso sul mio corpo che, tutto sommato, non aveva perso il suo naturale tono rosso smagliante. Il dolore alle tempie era persino più forte di prima, e le due corna erano state rabberciate alla meno peggio; un corno era orientato verso il basso e così era entrato nel mio campo visivo, ed io avevo presto sviluppato un altro tic: il mio occhio lo puntava continuamente.
Sapevo che non ero un bello spettacolo.
La voce si sparse in fretta e vidi altri amici di lunga data venire a darmi il bentornato giù al vecchio fiume all’ingresso, mentre il barcaiolo, intento al suo lavoro come sempre, se la rideva della grossa da lontano. Dovevo essere diventato la barzelletta più divertente di tutti i gironi. E non avevano ancora visto il meglio. Da quando ero entrato, non riuscendo ancora a volare, avanzavo lento, a piccoli passi, a causa di quel peso morto che la mia splendida e virilissima coda era diventata; il chirurgo l’aveva venduta in pezzi, e aveva inframmezzato ai pochi che gli erano rimasti le ossa midollari scarnificate di animali selvatici avanzati dalla cena dei suoi cani.
Insomma, trascinavo a fatica il residuo semiaddormentato della mia identità, una specie di pappa di cane scaduta e fetida che riusciva a farmi sentire indegno del posto in cui mi accingevo a rientrare.
A ciò si aggiungevano il buco che aveva lasciato quella grossa pallottola, attraverso il quale, all’altezza del mio stomaco, si sarebbe potuto contemplare il panorama alle mie spalle, e tutte le fasciature per le piccole ferite riportate inconsapevolmente durante la mia breve mortalità.
Presi ciò che restava della mia coda fra le mani, abbassai umilmente lo sguardo, e cominciai a trascinarmi verso casa.
Quasi non notai il festone che gli amici avevano messo sulla porta:

Bentornato a casa Mefy!

Oggi posso dirlo con certezza.
Il mondo degli esseri umani si era rivelato un autentico inferno.

mercoledì 15 ottobre 2008

Dai dintorni...

Sei i miei occhi
che guardano dentro
sentono profumo
d’acqua sempre viva
sei la mia bocca
che parla i tuoi colori
sono tutti qui
virano ogni giorno
sei le mie mani
che ti disegnano nell’aria
stringono nel vuoto
afferrano il ricordo
sei la mia acqua
che è stata
fresca
dolce
striata dalla luce
che trema e stupisce
ruscello dei tuoi monti
sale del mio mare
sei, la mia
vita
di ieri.

Cerimonia di consegna del Premio Archimede

In un inatteso risveglio di questa lontanissima estate, in una città di pietra bianca, mare e papiri, ho ricevuto la scorsa domenica il Premio Archimede per il miglior racconto fantastico nell'ambito del Premio Letterario Internazionale Siracusa.
Ancora una volta il racconto è "Tempus fugit" (qui: http://raccontifantascienzaedintorni.blogspot.com/2008/10/tempus-fugit.html )

La cerimonia si è svolta in uno spirito tradizionale siciliano di ospitalità, che si lascia riscoprire ogni volta che si ha la possibilità di trovarsi in questa meravigliosa terra, nella sala consiliare di Palazzo Vermexio.E' la prima volta che questo concorso ha indetto un premio per il miglior racconto fantastico. Un grazie sincero a tutta la giuria, e fra gli organizzatori in particolare alla Regione Sicilia, alla Provincia di Siracusa e al comune di Siracusa, anche per aver voluto dedicare una sezione del concorso al genere fantastico.
Il comunicato ufficiale qui:
http://www.libera-aps.it/Foto/Vincitori%20X%20edizione%20Concorso%20Letterario.pdf


domenica 5 ottobre 2008

Dodici minuti in compagnia di Jasper Fforde...


Il 28 settembre del 2008 del mondo reale, e in occasione della manifestazione “La passione per il delitto” (dedicata alla letteratura di genere giallo) ho incontrato Jasper Fforde, il romanziere inglese ormai celebre in tutto il mondo per l’appassionante serie di romanzi che hanno per protagonista la detective letteraria Thursday Next.
I romanzi di Jasper Fforde rappresentano un genere ibrido e difficilmente classificabile; i suoi personaggi nuotano sereni in un mare di fantasia dal quale emerge un immaginario e surreale mondo ucronico, il tutto speziato con uno straripante ma discreto (e non è un paradosso) humor britannico, e non mancano spunti di genere poliziesco che tengono con il fiato sospeso in un’odissea che si svolge fra le pagine dei grandi classici della letteratura inglese o di una trama abbandonata di un autore in cerca di fortuna.
Il libro come realtà alternativa e preferibile, l’essere umano alla sua massima potenza.


In questa intervista a questo grande artista, ho cercato di sviluppare poche domande essenziali, diverse (mi auguro!) da quelle cui Jasper ha risposto in altre occasioni, e tentando di afferrare alcuni pensieri dell’autore, al di là della parola scritta.

F. Jasper, prima di tutto voglio dirti che ho letto e amato profondamente i tuoi tre libri ad oggi pubblicati in lingua italiana; non mi sono ancora cimentato con la tua prosa in lingua originale, ma prometto che lo farò.
J. Davvero? Bene…
F. Sarò molto diretto: hai mai letto “La Storia Infinita” di Michael Ende?
J. Veramente no, ma ho visto il film di Wolfgang Petersen, che ha anche firmato U Boot 96 se non erro… due film molto diversi fra loro indubbiamente!
F. Oh sì, è vero. Ecco, mi chiedevo (non senza malizia), se ti fossi ispirato a quella storia per l’idea di poter entrare all’interno dei libri…
J. No, proprio no, ma certamente bisogna riconoscere che l’idea di poter saltare all’interno dei libri era nell’aria da parecchio tempo; d’altra parte, quando scrivi storie di genere fantastico e sviluppi un’idea che pensi sia completamente nuova e originale, ti convinci che hai scoperto un territorio vergine ed inesplorato, ma poi ti devi rendere conto che stai percorrendo verosimilmente le tracce che qualcun altro potrebbe aver lasciato; il punto è come poi sviluppi quest’idea, in questo caso l’idea che qualcuno sia in grado di spostarsi all’interno dei libri e delle loro storie. Non penso infatti che nessuno abbia mai pensato in precedenza di descrivere l’esistenza di un corpo di polizia operante all’interno della narrativa, nel quale vi sono tutti questi personaggi che fanno tutto quel che fanno quando invece, nelle loro mansioni ordinarie di servizio, svolgono il ruolo, ad esempio, di Amleto. No, non mi pare che nessuno l’abbia mai fatto prima, in effetti.
F. Assolutamente, no.
J. Già. L’idea esisteva, ma questo sviluppo è del tutto nuovo.
F. Vorrei soffermarmi sul personaggio di Aornis Hades, la donna terribile che nel secondo e terzo libro (ovvero “Persi in un buon libro” e “Il pozzo delle trame perdute”, ndt) tenta continuamente di cancellare il ricordo che la protagonista, Thursday Next, ha dell’amato marito Landen, dapprima nella realtà, e poi anche insinuandosi in lei sottoforma di virus mentale.
J. Sì, esattamente.
F. Ne “La storia infinita” c’è un costante riferimento al “Nulla” che avanza, e che distrugge tutto, che divora questo mondo immaginario (“Fantàsia”, ndt) che è poi la fantasia infantile. Mi chiedevo quanto dietro idee come queste vi sia l’intenzione di rappresentare l’annullamento della vita, della creatività, della fantasia da parte delle “forze del male”, come se vi fosse un timore di perdere la propria fantasia a causa di persone che sono in grado di annullarla, come la Goliath (la multinazionale del male della serie, ndt), magari annullando il ricordo, o cancellando i libri…
J. La cancellazione dei libri... Penso che ci sia molto a proposito del tema della memoria nei miei romanzi. Credo che si tratti di un argomento molto emozionante. E in genere di fronte a idee di questo tipo, che mi stimolano, mi piace tentare di esplorarle nelle mie storie. In effetti la vicenda di Aornis non è molto legata a questo tema, della perdita della fantasia, è semplicemente un’idea con cui ho voluto giocare, però nel quinto libro della serie (“First among sequels”, ndt), che non è ancora disponibile in italiano, ad un certo punto della narrazione ci si trova all’interno di un libro che sta venendo cancellato. Tutto inizia a sparire finché ci si ritrova in piedi su di una piccola piattaforma circolare. Ma ancora una volta non c’è alcun collegamento con La storia infinita.
F. Deve esserci qualcosa di profondamente inconscio che genera alcune idee, in ogni caso, non pensi? Idee fra le quali poi si trovano delle similitudini.
J. Assolutamente sì. Ecco, in un certo senso gli autori formano una specie di grande piramide in cui ogni autore poggia sulle spalle degli altri; possiamo pensare a un’immagine simile, in cui alla base ci sono i più grandi, come, ad esempio, Omero, Orazio, e poi si procede sempre più in alto, verso autori sempre più recenti. Di conseguenza, quel che avviene è che ogni scrittore, benché inconsciamente, in ogni momento sta pensando anche alle cose che gli altri prima di lui hanno scritto, perché esiste questa coscienza collettiva, e le idee circolano al suo interno, e questo è il motivo per cui alle volte gli autori sviluppano determinate idee nello stesso momento, perché è quello il momento giusto, ovvero il momento in cui l’inconscio collettivo ha raggiunto quel particolare livello. I tedeschi hanno una parola molto adatta per definire questo concetto, lo Zeitgeist (“spirito del tempo”, ndt); quando si arriva allo zeitgeist adatto, l’idea in qualche modo emerge, per cui se non avessi avuto io l’idea di Thursday Next agente di polizia all’interno dei libri, un’idea piuttosto strana che è nata alla fine del ventesimo secolo, qualcun altro l’avrebbe avuta nello stesso periodo.
F. Puoi darmi una tua personale definizione di “Fantasia”?
J. La fantasia. Non ricordo che qualcuno ne abbia dato una definizione formale e strutturata, ad ogni modo la fantasia è quando prendi la vita reale e la guardi da un’angolazione leggermente diversa. E’ un po’ come quando torni a casa, entri nella cucina, e sali sul tavolo. Ti guardi intorno e dici “diavolo, è completamente diversa!”. E’ un altro modo di vedere. Guardi il mondo reale, questo mondo intorno a noi, e lo guardi con un’attenzione particolare, al punto che le cose divengono esagerate. In realtà non penso che esista una definizione specifica. Inoltre, è un po’ come la differenza fra quel tipo di lotta libera, priva di regole, e il pugilato, o lo judo; è senza limiti, ecco, scrivere il genere è così, senza regole, puoi fare quello che vuoi.
F. Molto irrazionale.
J. Sì, completamente.
F Jasper, è vero che possiedi e piloti personalmente un aereo?
J. Sì. Sono un pilota.
F. Lo eri in passato? Eri un pilota militare?
J. Oh, no.
F. Quindi è solo un tuo hobby?
J. Sì, un hobby. Volo in giornate di sole, come oggi. Non ho mai avuto la minima intenzione di volare nel cattivo tempo.
F. E cosa preferisci, volare o scrivere?
J. Uhm… be’, amo ovviamente tutt’e due le cose, ma certo non vorrei mai che volare fosse il mio lavoro, mentre in merito alla scrittura, la amo sia come hobby che come lavoro. No, il volo è giusto un hobby. E poi volare è bello mentre lo fai, mentre scrivere è più bello quando lo hai fatto; quando hai terminato il libro ed è pubblicato, è lì, e tu lo sai, e lo guardi. Attualmente provo queste sensazioni avendo terminato diversi libri, ma se mi metto a ricordare periodi in cui ho trascorso 8-10 mesi di attività intensa di scrittura, devo dire che si è trattato di duro lavoro; divertente, ma molto duro.
F. Lavori ancora come tecnico della messa a fuoco?
J. No.
F. Dunque sei uno scrittore a tempo pieno.
J. A tempo pieno, certo. Non era possibile continuare a fare due lavori. Fortunatamente guadagno abbastanza scrivendo, quindi non ho più bisogno del mio vecchio lavoro.
F. Un’ultima domanda: perché nei tuoi libri hai trasformato il Galles in una repubblica socialista?
Ah, è una bella domanda, questa. Mia moglie è gallese, ed abbiamo avuto un bimbo gallese. Quando stavo scrivendo il primo libro della serie, Il caso Jane Eyre, il cattivo, Acheron, nella stesura originale si nascondeva a bordo di un dirigibile. Il mondo di Thursday Next è una dimensione a basso sviluppo tecnologico, nel quale non esistono satelliti e viaggi spaziali, per cui i dirigibili sono utilizzati come stazioni di ripetizione per la TV e le comunicazioni, sospesi a migliaia di piedi di quota su tutta l’Inghilterra, ed Acheron si era rifugiato in uno dei tanti dirigibili, in particolare una vecchia portaerei riconvertita e proveniente da un universo parallelo in cui esistevano queste grandi aeronavi, sulle quali è possibile persino atterrare con un aereo. Questa era la prima stesura, secondo la quale Thursday per stanare Acheron doveva prendere un aereo, volare fino al dirigibile e agganciarsi per atterrare (come nella realtà delle portaerei) sulla pancia del dirigibile. C’erano tanti dettagli tecnici, piuttosto noiosi, ma il punto è che a me i dirigibili piacciono molto. Insomma, mia moglie, Mari, dopo aver letto la bozza nel 1999 mi disse ‘Il libro mi è davvero piaciuto, Jasper, è proprio divertente, ma la storia dei dirigibili è un po’ noiosa, una cosa per ragazzi, un po’ troppo zeppa di tecnologia…’. E io allora, guardandola, le risposi ‘Bene, e allora se non ti piace sistemerò Acheron nella tua… Repubblica socialista del Galles!’. E lei ne fu entusiasta.
F. Davvero incredibile il modo in cui nascono alcune idee….
J. Sì, e poi quando hai un’idea simile, capisci subito che puoi svilupparla; ho notato subito che la trovata era buona, e che si inseriva bene nella storia, perciò l’ho approfondita nei libri successivi, creando una frontiera, la necessità di un visto d’ingresso, insomma ne ho fatto qualcosa di simile alla Germania Est di una volta, così ho trasferito in Inghilterra la questione delle difficoltà di confine fra Germania est e ovest. Le idee nascono in questo modo, da una scintilla iniziale che poi cresce, e si sviluppa.
F. Grazie, Jasper, è stato un incontro grandioso.
J. Una bella intervista, grazie a te, Francesco.



mercoledì 1 ottobre 2008

Tempus fugit

Questo racconto, il primo di questa brevità che io abbia mai scritto, ha incontrato una serie piuttosto numerosa di successi:
-Vincitore del Premio Adeia 2008
-Vincitore del Premio Archimede per il miglior racconto fantastico nell’ambito del Premio Letterario Internazionale Siracusa Trofeo Papiro D’oro -Decadramma D’argento
-Secondo classificato al Premio Akery 2008 sezione fantascienza
-Secondo classificato al Trofeo RiLL 2008
-Segnalato ai Premi Loris Biagioni e Giorgio La Pira.
-Finalista al Premio Duerre 2008.
E' stato pertanto pubblicato in Fuga da Mondi Incantati (Nexus Ed. 2008), nella rivista Tangram, e successivamente online su Continuum.

Tempus fugit

Quel mattino, Marco faticò più del solito a svegliarsi.
Per qualche istante aveva pensato che quel trillo prolungato e pungente che sentiva fosse l’epilogo di un brutto sogno.
Poi invece si era reso conto che non aveva sognato affatto; a pensarci bene, sembrò che la notte fosse passata in un baleno, e nelle notti brevi, si sa, non c’è alcun posto per i sogni.
Si alzò e si gettò sotto la doccia fredda. Si vestì, poi fece colazione davanti alla finestra che dava sul Tevere.
Quella domenica d’inverno Roma era più bella che mai; mentre l’alba lambiva la città ancora addormentata, il ragazzo si preparò per uscire.
La giornata si preannunciava eccitante: la bella ragazza di Bucarest che aveva conosciuto a Villa Borghese il pomeriggio precedente gli aveva dato appuntamento davanti al suo albergo.
La sera prima, dopo la cena a Trastevere, quando si erano salutati, lui non aveva avuto il coraggio di farsi avanti per accompagnarla all’hotel.
Era un disastro con le belle donne, ma per fortuna le belle donne gli davano sempre una mano; quando era rientrato si era ritrovato in tasca un biglietto, scritto in stampatello con dolce ironia:

Evita questa donna: Tanya, Hotel Antico Impero, Piazza dell’Amore, ore 11.00.

Uscì di corsa, felice di recarsi da lei e poterla vedere di nuovo.
Alla sera, rincasò esausto.
Che giornata splendida. E quanto era bella Tanya! I suoi baci erano soffi di vento liquido e caldo sulle labbra, i fianchi stretti e morbidi sembravano fatti per le sue mani, i grandi occhi verdi gli toglievano il respiro.
Avevano fatto l’amore tutto il giorno.
Prima di addormentarsi, il ragazzo provò la sensazione che quella giornata si fosse svolta troppo in fretta. Come un film mandato avanti a velocità più alta del normale.
Quando stai bene, pensò, il tempo ti sfugge via.
Che peccato, con quella donna lui ci avrebbe passato giorni e giorni, possibilmente in un letto.
Il giorno dopo, di mattino presto, andò a cercarla, ma lei era partita. In albergo, stranamente, nessuno si ricordava di quella bella ragazza che il giorno prima occupava la stanza 777. Eppure non era di certo una che passava inosservata.
Ieri alla reception c’era un altro, pensò.
-Ho preso servizio stamattina, signore- aveva detto il nuovo addetto per giustificarsi.
Per un attimo Marco ebbe un brivido. Aveva sognato tutto? O, peggio, se lo era immaginato?
Ma no! Il ricordo di lei era reale, nitido, intenso, caldo.
Se la sentiva ancora addosso, quella pelle ambrata, eppure… era già passato un giorno, anzi, due.
O forse… tre?
Marco si ritrovò a cena con gli amici, mercoledì sera, in pizzeria. Era stordito, confuso. Pensava ancora a Tanya: perché se n’era andata in quel modo? Non lo aveva nemmeno avvisato.
Che giorno è oggi?, dovette chiedersi al mattino seguente, sempre più disorientato. Per stabilirlo ci volle del tempo: era già venerdì; ma della settimana successiva.
Erano passati undici giorni? No, non era possibile. Cercava di ricordare cosa avesse fatto per tutto quel tempo; c’erano delle tracce nella sua memoria, ma sbiadite e frammentarie.
Qualche ora in ufficio, una partita di calcetto, la visita in ospedale a sua sorella… pochi ricordi per riempire tutto quel tempo. Diamine, erano passati undici giorni! Cos’altro aveva fatto in undici giorni?
Le mie giornate si somigliano un po’ tutte, pensò, depresso e sconsolato.
Quella notte il caldo eccessivo lo svegliò; strana temperatura per essere febbraio, rifletté nella semi-incoscienza. Ne approfittò per alzarsi e andare in bagno.
Il mattino seguente, facendo colazione accese la TV per guardare il telegiornale; continuava a fare un gran caldo.
Lo speaker gli diede il buongiorno ed annunciò che era il sedici maggio.
Si alzò di scatto, gli occhi sbarrati, i brividi lungo la schiena, le mani tremanti, la voce strozzata in gola nel tentativo di gridare.
Ne era certo, era andato a dormire in una fredda sera d’inverno; aveva quasi perso il conto, ma doveva essere il 12 febbraio!
Che diavolo stava succedendo?
Chiamò il suo amico più caro, Andrea, e senza dare troppe spiegazioni gli chiese il numero di telefono del suo psicoterapeuta.
Dall’inizio alla fine della telefonata con l’amico si era già fatta notte.
Arrivò allo studio dello psichiatra ad agosto inoltrato, e quando ne venne fuori le foglie iniziavano a cadere dagli alberi; l’asfalto era arso dal sole al suo ingresso, ed era coperto di foglie gialle all’uscita.
Stava impazzendo? Delirava? Lo psichiatra aveva fatto delle strambe ipotesi, tutte poco piacevoli, e alla fine gli aveva dato delle gocce per la notte e un nuovo appuntamento per l’indomani.
Lui cercò di rispettare quell’impegno, ma tornò dal terapeuta che faceva già molto freddo; per strada gli alberi straripavano di palline colorate e festoni natalizi. E, quel che era peggio, lo psichiatra cercò di convincerlo che erano al quarto mese di terapia, ormai, e che i progressi erano stati ben pochi, per non dire… zero.
Questo lo vedo da me, pensò Marco.
Comprò un regalo per Tanya. Da qualche parte doveva avere il suo indirizzo, glielo avrebbe spedito in Romania.
Pochi giorni dopo, arrivò una lettera della ragazza. Lei lo ringraziava, si ricordava bene di lui, anche se era passato tanto tempo, e gli diceva che il fatto di aver ricevuto a Pasqua il suo regalo di Natale l’aveva divertita; forse di quel ritardo doveva incolpare le poste italiane o magari quelle del suo paese.
Marco aveva amato Tanya solo pochi giorni prima, ma era già passato più di un anno.
Non sapeva più cosa pensare.
Certe volte si alzava con la barba lunga, altre con un taglio diverso di capelli, spesso si ritrovava in luoghi o città dove non rammentava di essere mai arrivato; scoprì in ritardo che suo fratello era emigrato negli Stati Uniti, e mancò al secondo matrimonio di sua madre con quello che seppe esser diventato il suo amato patrigno.
Non c’erano molte alternative: o era pazzo, o l’intero universo stava prendendosi gioco di lui.
Dovette scegliere la prima opzione, ipotizzando che aver formulato la seconda fosse prova lampante di follia in fase già avanzata.
Si ritrovò quindi ricoverato in un centro di igiene mentale, nel maggio di tre anni dopo, e lì apprese che in realtà vi era entrato da molto tempo. Ma dopo due giorni era già luglio dell’anno successivo, ed era stato dimesso, e chissà da quanto.
I successivi trenta giorni furono un totale inferno.
Il tempo continuava ad accelerare sotto il suo sguardo impotente. Le sue mani invecchiavano, i suoi abiti cambiavano, tutto si muoveva ad una velocità impossibile.
Aveva ormai venticinque anni in più di quando aveva conosciuto Tanya.
Un giorno la donna, ormai matura e sempre affascinante, venne a trovarlo per una settimana, e fu l’unico momento felice per Marco, anche se durò pochi minuti, forse un’ora, per quel che lui fu in grado di ricordare.
Era prossimo ad esplodere.
Gli anni passavano travestiti da giorni, e la scienza progrediva; ormai vecchio, aprì l’elenco telefonico e si imbatté in un annuncio che attirò la sua attenzione:

Dottor Andreas Kronos Zeit
Riparazione Falle Temporali
Interventi urgenti a domicilio


Il campanello di casa suonò appena ebbe chiuso il librone, ma in realtà erano passate sei ore.
Un omino basso, calvo e con il naso all’insù lo guardò sull’uscio con pupille puntiformi perse in fondo a spesse lenti d’occhiali da miope.
-Mmmm. Lei deve essere quello che mi ha chiamato- disse, dando prova di eccellente intuito.
Entrò e poggiò in terra una pesante valigetta.
Spiegò che le forti emozioni possono causare l’improvvisa apertura di falle nel flusso del tempo. Nel suo caso doveva essere stata la travolgente avventura con Tanya, in gioventù.
-E’ come se lei stesse seguendo una linea retta che taglia tutte le curve della sua vita; lei vive solo i punti di intersezione, ma perde tutti i segmenti intermedi.
Era stato chiarissimo; andando avanti così, avrebbe continuato quella caduta libera nel mare del tempo, precipitando in pochi giorni verso la fine della sua vita.
Marco implorò di essere aiutato.
Il dottore spiegò che con i suoi strumenti poteva procedere in due modi: uno più semplice, l’altro più complicato.
Il metodo semplice consisteva nel ripristinare il flusso normale del tempo, e così la vita avrebbe ripreso la sua velocità fisiologica, ma solo da quel momento in poi. In tal caso tutto il passato sarebbe stato perso per sempre, ma l’efficacia dell’intervento era garantita.
Oppure, nel modo più complicato, il dottore poteva riportarlo indietro, nel passato, fino al tempo precedente l’incontro con la donna che aveva cambiato la sua vita. In questo caso tutto poteva riaggiustarsi, ma era fondamentale che lui evitasse a tutti i costi di fare l’amore con lei.
Non fu facile prendere quella decisione; Tanya aveva rappresentato la parte migliore della sua vita, ma Marco desiderava troppo riappropriarsi della sua giovinezza, ed optò per la seconda via.
Il dottore prese nota di tutto quel che Marco riuscì a ricordare della sua avventura di gioventù: il nome della donna, l’albergo in cui si erano visti, il giorno, l’ora.
Poi gli diede appuntamento.
-Ci vediamo fra un anno nel mio studio- gli disse.
-Come dice?!- gridò Marco in risposta, preoccupato sulle prime dall’idea di una lunga attesa.
-Non si preoccupi, per lei saranno sei o sette minuti, alla sua velocità.
-Ah, già. D’accordo. Grazie, dottore.
L’anno dopo, tutto era pronto; Marco si stese sul lettino, chiuse gli occhi e iniziò a sperare. Poiché una volta tornato indietro avrebbe perso il ricordo di tutto, lasciò che il dottore gli mettesse in tasca un provvidenziale bigliettino:

Evita questa donna: Tanya, Hotel Antico Impero, Piazza dell’Amore, ore 11.00.