venerdì 22 agosto 2008

Viaggiatore

Questo racconto ha vinto il Premio Calogero Rasa 2006 ed è quindi stato inserito nell'antologia finale (disponibile online qui).
E' stato anche pubblicato nell'antologia "La voce delle donne", edizioni Fiori di Campo, come uno dei pochi racconti scritti da una penna maschile. Successivamente, è stato ripreso in Braviautori.it, antologia visual-letteraria, prima edizione.


Viaggiatore

Camminando lungo la spiaggia guardava il mare.
Non riusciva a staccare lo sguardo da quella massa grigia increspata da sottili vene verdi che sembravano pulsare ad ogni incedere delle stanche onde dell’alba.
Nei rari momenti in cui le resistenze della sua mente di navigatore non erano sconfitte dall’ipnotica potenza dell’immagine di quel mondo, si chiedeva se sarebbe mai riuscito a tornare a casa.
Quasi dubitava ormai di averla, una casa; nei dieci secoli terrestri di viaggi attraverso lo spazio non aveva trascorso in essa più che una minima frazione di quel tempo che aveva speso per la sua ricerca.
E comunque di quella casa a milioni di anni luce da lì, non gli importava ormai più niente; da quel mondo solitario e pulito non se ne sarebbe andato mai, se solo avesse potuto decidere del proprio futuro senza doverne rendere conto al Comando di Viaggio.
Ma il richiamo vocale automatico che gli risuonava internamente non aveva pietà: “Viaggiatore, la tua ricerca sarà fruttuosa. Abbiamo bisogno di nuovi mondi”.
Né sarebbe servito implorare pietà a un trasmettitore iper-luce conficcato nella coscienza, che ogni giorno gli ricordava d’essere una delle infinite appendici di una centrale di comando collocata nella moribonda zona dell’Universo da cui proveniva, e il cui unico scopo era l’individuazione di pianeti da rendere idonei per la colonizzazione.
Erdun partecipava così alla selezione di nuovi mondi abitabili, su cui trasferire i miliardi di suoi simili che vivevano nella massa di stelle morenti e pianeti congelati delle galassie più esterne dell’Universo.
Era la prima volta dall’inizio dell’esplorazione del cosmo che non desiderava tornare indietro e fare rapporto al Signore Superiore.
Era la prima volta che desiderava dimenticare la sua natura di essere plasmatico e rimanere per sempre nella dolce prigione di quel corpo solido di carne, sangue ed ossa, esemplare tipico di una in particolare tra le mille specie senzienti solide della galassia, la specie umana.

Stava ancora guardando il mare e decise in un istante, all’improvviso, di infrangere le regole e muoversi in modo non razionale e non utile alla missione; si diresse in fretta verso l’acqua, il cui odore salmastro invadeva già da alcuni minuti le cavità nasali di quel corpo straordinariamente complesso e sensibile.
Non poteva sottrarsi, non era in grado e non voleva resistere all’infinita gamma di impulsi che aggredivano quel fragile involucro di pelle e inebriavano la sua perfetta mente aliena fino a stordirla, drogandola di desiderio.
Sensazioni, emozioni, segnali elettrici intensissimi, cui non era in grado a quel tempo di dare un nome.
Seguì un incerto sentiero erboso tra le dune verdi e scese fino alla riva; la raggiunse, si inchinò e toccò l’acqua.
Per la prima volta prestò così attenzione al numero di estremità che si diramavano da una delle due lunghe appendici di cui era dotato il corpo che abitava da pochi minuti; erano cinque, e un indigeno di quel mondo, cui aveva chiesto dell’energia, gli aveva insegnato a produrre il suono con cui chiamare questa e quelle: “cibo” e “dita”.
Erdun aveva sentito un segnale interno strano di fronte allo sguardo amichevole dell’indigeno disposto ad aiutarlo senza chiedere nulla in cambio, e gli era piaciuto.
A dirla tutta, si era anche vergognato di non sapere rispondergli, di non sapere usare quella primitiva funzione materiale che produceva vibrazioni percepibili dell’etere, utilizzate per comunicare.

Infilò quelle “dita” nell’acqua, e le portò poi verso l’orifizio centrale, mobile e sinuoso, della parte alta pensante di quel corpo, la parte in cui sentiva più potente la capacità di interagire con l’ambiente esterno, e in cui avvertiva di essere più presente in quell’involucro.
Avvertì un altro segnale, una sensazione nuova, che all’inizio lo terrorizzò.
Aveva già collaudato molti organismi solidi nei pianeti che aveva avuto occasione di conoscere, ma quello umano si rivelava senza ombra di dubbio il più incomprensibile e affascinante.
Il contatto con l’acqua irruppe nel patrimonio delle sue conoscenze fisiche di essere etereo privo di sensi per natura, ma ai sensi adattato per necessità, ora sulla terra come in passato su decine di altri pianeti.
Fu preso da convulsioni: sentì quelle che riconosceva come le parti interne di quel corpo contrarsi e poi dilatarsi, e poi ancora contrarsi, e distendersi nuovamente, e così ancora molte volte, fino a provare infine un senso di sollievo che gli era ignoto fino a quel momento.
Il sapore, l’odore.
Non poteva dare un nome a quelle sensazioni umane, tra le migliaia che aveva provato girovagando per il cosmo, ma iniziava ad avere ben chiara la differenza tra di esse.
Imparava in fretta, come nelle precedenti missioni.
Ma questa volta tutto era diverso; questa volta l’intensità dei segnali percepiti era straordinaria, e soprattutto, quei segnali sembravano sempre originarne altri.
Si trasformavano.
Come nel sistema di Aldebaran la luce dei pianeti più lontani dai due soli cessa d’esser rossa e diventa blu nell’arco dello stesso giorno, sulla terra le sensazioni dell’essere vivente umano cessavano di essere quel che erano state e cedevano il posto ad altri segnali, molto più complessi, ed apparentemente privi di una causa riconoscibile.
Fu quel che accadde anche in quel momento; al sapore, dell’acqua, subentrò un senso di euforia incontrollata, mai provato in precedenza su nessuno dei pianeti esplorati.

Questo mondo è incomprensibile. Cammino da ore e so di essere diverso, ad ogni passo. Cambio di continuo. Questo corpo solido si trasforma, sempre, anche quando è fermo. Non sono io a imporre all’esterno la mia volontà; è invece l’ambiente che influenza questo organismo. Sono come impotente. Sento di avere bisogno di ogni parte dell’immagine che vedo fuori di me. O meglio, sento di desiderarla. Nonostante questo corpo sia solido, sembra che la sua sensibilità alla luce sia persino superiore a quella che ho nella mia forma plasmatica, cui ho dovuto rinunciare ancora una volta, su questo mondo di pietra. Ogni parte di questo involucro di pelle è sensibile, comunica con l’aria che lo sfiora, la sente, e poi la rifiuta, o la prende. E per quanto io mi sforzi, su questi fenomeni non ho facoltà di controllo alcuno.

Conosceva già le emozioni più elementari, le aveva apprese nei suoi viaggi ed anche in forma plasmatica, nel suo mondo.
Ma sulla terra era diverso; lì, e in quell’organismo, esse nascevano all’improvviso, ed erano sconvolgenti.
Sul suo pianeta non si usava parlare; la comunicazione tra individui avveniva solo in un modo, attraverso veloci onde elettromagnetiche di pensiero.
Il suo pianeta, il nostro pianeta.
Non sarebbe possibile dire di più, in questo testo scritto. La scrittura stessa è un non-senso, nel nostro mondo, ed è solo grazie all’amicizia che ho instaurato con un umano nostro prigioniero, che mi ha insegnato ad usare questi segni che io non posso vedere, che riesco a permettere che tu, umano, possa leggere quanto sto ora scrivendo, con il suo aiuto, per raccontare la breve storia di mio fratello Erdun sul tuo pianeta, la Terra.

Sento forte questa energia che mi assale; entra in me attraverso due vie parallele. “Occhi” li chiamano qui. Il suono che descrive questa parola si realizza con la stessa cavità che mi ha consentito questa particolare conoscenza dell’acqua. Conosco l’acqua, ne abbiamo sul mio pianeta, ma non ho mai avuto modo prima di toccarla con questi potenti organi sensoriali, né di percepire un immagine esterna come fosse dentro di me.

Mio fratello Erdun continuò a camminare.
A quei tempi la conoscenza del pianeta terra non era sviluppata come lo è oggi; ma lui, in preda all’euforia incontenibile che le sensazioni permesse da quel corpo gli regalavano, si illuse per un sol momento di essere ormai esperto del vostro mondo ed entrò in quella grande massa d’acqua.

Ad un tratto capì.
Capì che l’aria espulsa dall’acqua che violentemente penetrava e invadeva i suoi polmoni era indispensabile per i processi vitali terrestri; capì che l’interazione tra viventi sul vostro pianeta è molto complessa, quando, dopo che lo avevano tirato fuori di lì, vide, poco prima di chiudere gli occhi, il volto di un essere diverso ma appartenente alla stessa specie che lo toccava e gridava, implorandolo di rimanere in vita.

Forse un giorno, quando la pace sarà stata fatta, potremo permetterci di rivelare ai terrestri che il corpo di Erdun, che essi seppellirono nella sabbia di quel tratto di costa, fu per lui solo un veicolo, e che mio fratello è vivo e vegeto.

Ma io non capisco più mio fratello.
Erdun mi ha appena comunicato di voler tornare sulla terra ed io lo giudico un folle per questa decisione.
Sostiene di voler tornare laggiù per cercare quell’essere diverso che gridava al suo corpo umano esanime… quella “donna”, è così che l’ha chiamato.

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