venerdì 22 agosto 2008

Il tempo di Kal

Racconto vincitore del Premio Akery 2006, pubblicato sulla rivista "Fondazione", prestigioso periodico amatoriale di FS.


Il tempo di Kal

Il deserto era ormai ben visibile dagli oblò del posto di pilotaggio della grande nave, che stava precipitando verso il basso.
L’intensa luce bianca riflessa dalle distese sottostanti costringeva il malcapitato a serrare gli occhi mentre guardando fuori cercava inutilmente di orientarsi.
Si scoprì poi a fissare le proprie mani, aperte sulla plancia, le dita poste sulle decine di tasselli a comando digitale, ancora tese dalla concentrazione di qualche istante prima. Non capiva.
Fu come svegliarsi all’improvviso da un sonno profondo e tornare alla realtà.
-Dove mi trovo, maledizione?!- gridò in preda al panico.
-Cosa ci faccio qui? dove mi trovo, maledizione?
Continuava a gridare, ripetendo le stesse parole, sfinito dalla paura e schiacciato da una fitta perenne allo stomaco; vomitava la sua angoscia fuori da sé.
Gli sembrava quasi che fosse la prima volta nella sua vita che urlava a squarciagola.
La sua vita. Già, ma quale?
Non aveva più nessuna memoria della sua storia.
Ma fino a solo un attimo prima sapeva bene chi era.
Ahrab era stato il suo nome, ed era partito dal suo pianeta, Kal, abitato da esseri umani, alla scoperta di un nuovo mondo da esplorare. Come sempre, la missione era stata intrapresa con poche probabilità di successo, sulla grande nave monoposto, uno dei gioielli della tecnologia kaliana, prototipi unici destinati a viaggi di esplorazione spesso senza ritorno.
Ahrab non ricordava ormai più che aveva appreso e accettato con entusiasmo i grandi rischi a cui si era esposto.
Kal aveva perduto già molti figli prima di lui, ciononostante l’uomo si era offerto volontario e ne stava pagando le conseguenze.
-Argh!- gridò mentre, staccatosi dalla plancia, fu schiacciato contro il soffitto dell’abitacolo a causa delle violente scosse causate dalla perturbata atmosfera terrestre.
La nave era appena entrata in una zona in cui era esplosa una tempesta improvvisa, e dirigeva verso la superficie del pianeta terra in corrispondenza dei grandi deserti interni dell’Australia Occidentale.
Ma Ahrab aveva ormai perduto la cognizione della propria situazione e persino della propria identità.
L’amnesia era totale e l’uomo non riusciva a ricordare neppure il proprio nome. Sapeva che doveva pur avere un nome, sapeva di essere umano, sapeva come esprimersi con le parole e poteva dare un nome alle tremende emozioni che stava provando in quel momento, ma non era in grado di costruire da questi particolari l’immagine della scena in cui si trovava, né di dare ad essa una causa o uno scopo comprensibili.
La temperatura interna stava aumentando terribilmente, e Ahrab se ne rendeva conto; era in grado di comprendere il concetto di calore e di temperatura, ma di questa e di altre sue capacità era addirittura stupito.
Non sentiva troppo estraneo l’ambiente che lo circondava, le pareti interne dell’abitacolo piene di luci lampeggianti nel buio e mappe olografiche tridimensionali che disegnavano l’orografia del suolo ruotando su se stesse, ma continuava a domandarsi chi lui fosse e perché si trovasse lì in quel preciso istante, in quell’ambiente così sorprendentemente familiare.
Si domandava da dove venisse e dove stesse andando.
Era in grado di parlare ma non sarebbe stato capace di precisare che lingua stesse usando, era capace di capire la maggior parte dei significati di quelle luci elettroniche ma non aveva idea del perché ne fosse in grado, né aveva idea di quali decisioni potesse prendere; capiva che stava volando ma non ricordava quando, né come, né da dove, fosse partito.
Non ricordava di averlo voluto. E sì che lo aveva voluto, e con forza.
Non aveva la lucidità nemmeno sufficiente a chiedersi quale fosse il pianeta verso cui stava dirigendosi, ma avrebbe saputo probabilmente esprimere la definizione di “pianeta” con la precisione di un analista spaziale di prima classe, se ci fosse stato qualcuno a chiederglielo.
Si arrese all’avversità, e dimentico delle sue qualità di pilota si accasciò esausto al suolo, lasciandosi andare alla deriva degli eventi che lo comprendevano.
-Che sia quel che sia…- sussurrò chiudendo a fatica gli occhi iniettati di sangue, convinto che la morte fosse ormai prossima e annaspando nella memoria vuota per trovare una vaga traccia di ricordo.
Dopo essere uscita dalla tempesta, la nave si stabilizzò e procedette in volo automatico verso il punto di atterraggio.
Ahrab dormiva ormai profondamente. Nei suoi sogni c’era forse la verità che alla coscienza sfuggiva ormai del tutto.

I sistemi di bordo individuarono l’area di discesa. Nella zona, disabitata, nessuno vide l’enorme scafo nero avvicinarsi al suolo e sollevare nubi di sabbia bianca, per poi arenarsi tra due dune alberate a pochi chilometri dall’oceano pacifico.
L’uomo fu svegliato dalla suadente voce femminile del sistema automatico:
-Atterraggio completato. Ambiente idoneo e compatibile con la vita umana. Umani e altre forme di vita a distanza di sicurezza.
-Umani… a distanza di sicurezza!- esclamò riprendendosi -ho bisogno di altri esseri umani come me, devo cercare aiuto…
Si rialzò e si guardò in giro.
All’improvviso, di getto, esclamò con calma:
-Trasparenza.
E provò un brivido chiedendosi perché mai lo avesse fatto.
Le pareti della nave scomparvero, si ritrovò in mezzo al deserto, vide una radura alberata poco distante; poteva forse nascondere dell’acqua e sentendo la sete che lo tormentava si mosse istintivamente verso di essa, correndo. Urtò con violenza sulla grande parete trasparente della nave e cadde nuovamente al suolo.
Si rese conto di essere ancora a bordo, si voltò e vide una luce rossa accesa; istintivamente sollevò un braccio e intercettò un raggio luminoso dello stesso colore. Udì un rumore metallico e una porta si aprì; riuscì a identificarla dalla corrente di calore che attraverso il varco penetrava nella nave.
Si mosse verso di essa e vide una lunga passerella che dall’interno dell’astronave conduceva verso il suolo sabbioso.
Si fermò a pensare.
Si rese conto di non avere molto tempo per prendere una decisione. La prima di cui, forse, avrebbe finalmente conservato un ricordo. Ma per decidere era necessario tentare di capire. E per quanto gli elementi a disposizione fossero pochi, tentò di farlo.
Parlò ad alta voce, pur essendo solo, per fissare il ragionamento in una certezza che si potesse collocare al di fuori di sé, al di fuori di quella mente così vuota, priva di immagini del passato.
Parlare in quel modo gli sembrava inusuale, ma parlò di getto, sperando di poter ascoltare qualcosa di utile, come quando aveva ordinato, senza neanche rendersene conto, alle pareti della nave di diventare trasparenti. Qualcosa che uscisse dall’inconscio e diventasse una conoscenza utile a sopravvivere.
-Non è questa, la mia casa…
Poi rammentò qualcosa, finalmente, e provò un brivido di gioia incontenibile. Sperò per un istante di riavere in sé i propri ricordi.
Ma si disilluse presto, rendendosi conto che l’oggetto del ricordo era molto recente; era solo quella voce, a bordo, che aveva detto: “umani a distanza di sicurezza”.
Dunque ce n’erano di esseri umani, sul pianeta, pensò.
-Pianeta…- disse poi.
-Mi trovo su un atro pianeta. Devo essere qui per qualche strana ragione.
-Ma quale ragione?!- gridò con tutta la potenza che riuscì a scaricare nella voce. Il grido si perse sordo nella distesa di sabbia che gli si spalancava davanti.
Aveva sete, e fame.
Tornò all’interno della nave e non fu in grado di ricordare nulla di utile.
Fece dei goffi tentativi, sperando che potesse succedere qualcosa.
Gridò:
-cibo!- e nulla accadde.
-Acqua!
La nave non obbediva ai suoi comandi. O forse semplicemente lui non era in grado di dare comandi che la nave potesse comprendere.
Si rassegnò, non era in grado di governare la tecnologia che lo aveva portato in quel posto, a meno di non perdere tempo prezioso che avrebbe sottratto alla ricerca di acqua e cibo.
Vide una mappa olografica attiva e ne intuì il significato: il mare era vicino. Decise di allontanarsi dalla nave in cerca di fortuna. Comprese subito la direzione in cui muoversi e si incamminò verso l’esterno.
Iniziò a marciare verso la costa, voltandosi continuamente verso la grande sagoma nera, suo unico punto di riferimento. Dopo tre ore di marcia si ritrovò sulla cima di un promontorio e vide l’acqua: un’infinita massa blu che all’orizzonte si fondeva con il cielo in una interminabile e desolante immagine del nulla.
Si voltò da tutte le parti e non vide segno di vita.
Poi volse nuovamente lo sguardo verso l’acqua e al largo della costa vide uno strano oggetto sulla superficie, un puntino scuro sovrastato da una massa bianca.
Si rese conto che quell’oggetto si stava muovendo e si sedette a guardarlo, aspettando pazientemente e sperando che diventasse più grande e visibile.
Quando l’oggetto si fu avvicinato abbastanza, il puntino era diventato uno strano veicolo di forma vagamente somigliante alla sua nave, sovrastato da sottili ed ampie parti di struttura flessibile, che si gonfiavano al vento e sembravano spingerlo verso la costa. E quando fu ancora più vicino vide chiaramente degli uomini.
Ebbe paura e istintivamente si sottrasse alla loro vista.
Lo sbarco avvenne nella baia sotto di lui.
Quegli uomini gli causavano una sensazione istintiva di fastidio e di pericolo. Erano sporchi, indossavano abiti colorati e parlavano tra loro in una lingua incomprensibile. Ora quella strana nave d’acqua si vedeva molto meglio: nella parte più alta e centrale c’era una specie di stemma, un rettangolo flessibile, mosso dal vento, in cui una croce rossa a otto bracci era disegnata su un fondo blu. Anche quei piccoli pezzi di struttura che si erano staccati dalla nave e con cui gli uomini stavano raggiungendo la riva ne erano dotati.
Capì che quello doveva essere il loro simbolo, di chiunque si trattasse.
Li vide scendere a terra e notò che alcuni di essi indossavano lo stesso tipo di giacca blu e pantaloni chiari ed avevano capelli lunghi e bianchi, che fuoriuscivano al di sotto di uno strano copricapo nero; altri, più sporchi e malandati, e da quelli soggiogati, erano condotti a riva in catene, sotto la minaccia di rudimentali armi imbracciate dai primi.
-Prigionia…- disse di getto, con voce triste.
Un altro ricordo era tornato spontaneamente.
Poi udì un’esplosione; il rumore fece eco nella baia e uno dei prigionieri, colpito, cadde in acqua, trascinando con sé altri due a lui legati.
Ahrab decise di rimanere nascosto sull’altura.
Vide degli uomini bere e provò un dolore per tutto il corpo. Era ormai prossimo all’esaurimento.
Decise di attendere la notte e mescolarsi tra loro. Come sapeva che la notte sarebbe arrivata presto era un mistero anche per lui.
Dopo il tramonto si avvicinò all’accampamento, orientandosi alla luce dei fuochi che i primitivi umani avevano acceso. Notò che i prigionieri erano stati recintati in un’area in disparte e attese che la maggior parte di loro si addormentasse. Poi si avvicinò e applicando ad uno di essi una manovra che ignorava di conoscere fino a quel momento, lo tramortì e lo estrasse dal recinto.
Era magro, leggero e malridotto; non fu difficile trascinarlo sull’altura. Lo spogliò e ne indossò i maleodoranti abiti.
-Daranno pur qualcosa da mangiare e bere a questa gente!- esclamò mentre si impossessava della sua povera identità. Tornò al recinto e si introdusse fra gli altri segregati. Si finse muto e riuscì a bere; rimediò anche del cibo, uno strano impasto di carboidrati complessi, poco digeribile, pensò, ma ricco di energia.
Il giorno successivo fu tradotto insieme agli altri nella vicina città dove venne asservito come lavorante alla costruzione della ferrovia che avrebbe dovuto collegare Sidney a Whitepool e che sarebbe stata inaugurata nel 1851.

Il 30 ottobre 2005 la città di Amsterdam regalava ai turisti lo spettacolo dell’autunno sui mille canali. Zolle di verde e di giallo di milioni di foglie posate sull’acqua si fondevano con ampie strisce di grigio e blu mescolati nel cielo. Il rapido muovere delle nubi, spinte con forza dal vento del mare, alternava calde macchie di sole a fredde ombre d’autunno.
Quel giorno, il Dottor Jan Vaaler uscì di casa, si sedette al volante della sua Mercedes e raggiunse il suo ufficio nel porto fluviale della città. Salì al ventesimo piano del palazzo ed entrò nella sua stanza. Accese la sua pipa di Gouda dopo averla riempita con cura di pregiato tabacco persiano e si lasciò cadere sulla poltrona collocata dietro al grande tavolo in cristallo verde.
Dopo tutto il tempo che aveva trascorso sulla terra, si divertiva ancora molto, ogni giorno, a guardare le immagini appese alle pareti.
Tutti pensavano che si trattasse di foto d’epoca per le quali Jan nutriva notoriamente una vera passione, ma in realtà era la storia della sua vita, che ritualmente ripercorreva ogni mattina.
Le foto della prigionia in Australia, e quella del grande giorno della liberazione, che aveva meritato per aver dato un aiuto decisivo agli ingegneri che avevano inaugurato la ferrovia Sidney-Whitepool; quello era il periodo in cui tutti credevano che fosse un povero sordo-muto dotato di un sorprendente talento nelle costruzioni in muratura e nella realizzazione di terrapieni. Erano venuti poi i tempi dell’Egitto, dove avendo ormai preso dimestichezza con le lingue terrestri aveva imparato a decifrare i geroglifici delle grandi Piramidi, conquistandosi il favore delle autorità inglesi, grazie a cui ebbe un visto per l’Europa. Fu sottufficiale della Marina Reale Britannica e prestò servizio su di un brigantino della flotta dislocata nell’oceano indiano.
Tornato in Inghilterra, durante la seconda guerra mondiale si era distinto come volontario pilota nella battaglia d’Inghilterra, abbattendo numerosi Stukas.
E ancora, le ricerche nucleari negli Stati Uniti e le grandi scoperte sulla genetica umana, grazie alle quali, paragonando il proprio DNA a quello degli umani abitanti la Terra aveva fra l’altro compreso di essere molto più longevo di loro. Ma non sapeva ancora quanto.
Nel 2005 si era ritirato a condurre una vita più semplice e modesta, come direttore dell’autorità portuale di Amsterdam. Aveva mutato identità ormai molte volte e parlava ben dodici lingue terrestri; aveva imparato praticamente tutto del pianeta che lo aveva così miseramente accolto centocinquant’anni prima.
Aveva anche conosciuto e amato molte donne, ma con nessuna si era permesso di avere dei figli, timoroso di interferire in qualsiasi modo con la biologia delle tante razze terrestri con cui era entrato in contatto.
E ancora non ricordava nulla del tempo di Kal e della sua vita precedente.
Il campanello dello spazioso ufficio suonò mentre Jan ammirava le sue foto.
-Dottor Vaaler…- la voce sensuale di Irina, la segretaria estone di Jan, risuonò metallica come sempre nell’interfono -c’è qui un signore che dice di essere un suo amico… ho provato a dirgli che lei ha molti impegni, ma ha insistito; dice di essere arrivato stamattina in volo dall’Australia.
Jan si fermò sbigottito. Erano proprio le foto di quel periodo che stava guardando in quell’istante.
In tutti quegli anni, nessuno aveva mai sospettato nulla. Nessuno aveva mai lontanamente immaginato che lui potesse essere un alieno. E in Australia non ci era più tornato. Odiava quegli zotici australiani, e come biasimarlo per questo, dopo quel che aveva passato a Sidney nell’ottocento.
Chi diavolo poteva presentarsi a lui con un così chiaro messaggio di avvertimento?
-Faccia passare…- rispose con un tono seccato volto a nascondere la preoccupazione.
Jan si sedette sulla comoda poltrona girevole e vide entrare dalla porta un uomo di mezz’età, robusto e di aspetto molto curato.
-Buongiorno, il mio nome è Zed- disse dopo essersi seduto davanti a Jan.
-Ci conosciamo, Signor Zed?- domandò Jan con una curiosità viscerale che stava ormai prendendo la meglio sulla preoccupazione.
-Direi piuttosto che ci siamo conosciuti in passato, anche se lei probabilmente non lo ricorda.
-Capisco… è forse della polizia tedesca? pensavo che ormai quella storia dei container di Amburgo fosse risolta…
-Mi riferisco ad un passato ben più lontano nel tempo- lo interruppe bruscamente l’altro.
Jan vide le sue preoccupazioni trovare conferma; chi mai poteva essere quell’individuo che sfacciatamente gli dava a intendere di sapere tanto della sua storia, della sua longevità, e dell’Australia, per giunta?
-Bene- replicò -si riferisce quindi a…- e fece una pausa esortando l’altro a parlare ed usando uno sguardo interrogativo e un tono volutamente ironico.
-Il tuo nome è Ahrab. La tua missione esplorativa ti ha portato in questo mondo circa un secolo e mezzo fa.
Jan balzò dalla sedia. Poi aprì l’interfono e disse:
-Irina, disdica il mio appuntamento con il procuratore. Non ci sono per nessuno e prenda lei per cortesia tutte le mie telefonate nelle prossime ore.
Prese fiato, e rivolgendosi di nuovo al misterioso ospite, con calma, continuò:
-Non ricordo nulla. Ma la ascolterò.
-Sei nato su Kal molto tempo fa. Ti sei offerto volontario per una delle prime missioni di esplorazione sulla Terra. Io ero il tuo istruttore astronautico. Un tempo eravamo amici. Qualcuno doveva offrirsi volontario per venire a riprenderti, e l’ho fatto io. Non avrai grandi difficoltà a credere alle mie parole, perché sappiamo che i tuoi ricordi sono ancora in te, da qualche parte. Siamo riusciti a ricostruire la tua storia sulla terra, e dopo vari tentativi falliti, sono arrivato fino a te. Avrei voluto riuscirci più in fretta, e raggiungerti in una delle precedenti fasi della tua vita in questo mondo.
Jan era combattuto tra l’esigenza di conoscere la propria origine e la paura di apprendere una verità che considerava ormai sepolta in un remoto angolo dell’universo; in fondo sulla Terra non si era trovato poi così male.
-Quanti anni terrestri può vivere il nostro organismo?- chiese timidamente, considerandola come una delle domande che implicavano una risposta piuttosto innocua.
-Io ho milletrecentosei anni, e tu circa ottocentotrenta, se la memoria non m’inganna.
-E perché mai questi umani vivono così poco allora?
-E’ solo questione di evoluzione; con tutta probabilità fra qualche milione d’anni anche loro vivranno così a lungo.
-Quanto dista Kal dalla Terra?- domandò Jan-Ahrab.
-Ahrab… la tua domanda è priva di senso.
-Cosa vuol dire?
-Il punto non è quale sia la distanza nello spazio, ma nel tempo. Ti ho appena rivelato le nostre età, ma considerando l’epoca attuale, sia tu che io siamo nati in realtà sei miliardi di anni fa. Ahrab, Kal è la terra. La terra di sei miliardi di anni fa. Prima di tante cose che sono accadute su questo pianeta. Prima dell’età della pietra, prima dei dinosauri, prima di altre quattro civilizzazioni senzienti che si sono alternate l’una all’altra. Ciascuna con il proprio inizio, la propria storia, le proprie guerre, la propria fine. Il nostro non era un programma di esplorazione spaziale, ma temporale. Credo che dopo aver perso la memoria le conoscenze di fisica che hai accumulato sulla terra ti consentano comunque di seguire il mio ragionamento: le nostre missioni sono piuttosto semplici; l’astronave viene lanciata nello spazio e inizia un movimento di rotazione orbitale inverso alla rivoluzione terrestre; accelerando gradualmente fino alla velocità della luce, la necessaria conseguenza è lo sfasamento tra il tempo relativo al suolo e quello della nave orbitante. L’epoca in cui vivi tu adesso era l’oggetto di questa prima missione per la quale ti sei offerto volontario. La missione più rischiosa, perché destinata al futuro più lontano da noi. Durante la tua assenza abbiamo raffinato la tecnica impiegata, e ora i margini di errore sono inferiori.
-Perché ho perso il ricordo di tutto questo?- domandò Ahrab, sul cui volto iniziarono a scendere lacrime.
-Gli schermi della nave non erano abbastanza potenti. Sei entrato in una tempesta e le scariche elettriche atmosferiche ti hanno creato uno shock. Una banalità, ma sufficiente a cancellare apparentemente le tracce mnesiche coscienti. Hai conservato in realtà molti ricordi, più di quanti tu possa ora renderti conto, ma sono probabilmente collocati nel tuo inconscio. Potresti iniziare a ricordare tutto in qualunque istante. Oppure li hai perduti per sempre. A te la scelta, amico mio.
Ahrab sentiva che la verità era finalmente tornata in lui. Non il ricordo, ma la sensazione interna, chiara e limpida di aver di fronte il vecchio istruttore, l’amico Zed.
Trovò il coraggio di porre la domanda che più temeva:
-Devo tornare indietro?
-Vedo che hai assunto la mentalità terrestre, Ahrab. Nessuno potrà mai costringerti a fare una cosa del genere. Il nostro livello di umanità è molto superiore a quello che hai conosciuto qui. Del resto, mi pare che molti si siano resi conto che tu sei un essere eccezionale in questo mondo. Hai dimenticato ad esempio che potremmo aver svolto tutta questa piacevole conversazione con il pensiero, ma ti ho lasciato parlare. E’ divertente anche per me, ogni tanto. Da quando hai iniziato a gridare a bordo dell’astronave, non hai più smesso di usare la voce. Nella nostra civiltà, su Kal, parlare è superfluo. Il pensiero umano, l’affettività psichica, hanno raggiunto livelli di capacità e coerenza che travalicano i limiti della scissione tra coscienza e inconscio che gli umani della terra vivono così drammaticamente in quest’epoca. E tu, ora, ti stai comportando come loro. La scelta fra restare e tornare è solo tua, amico mio. La tua donna ha smesso di cercarti da quando sa che stai bene. I tuoi figli, Ahrab, sono orgogliosi di te. Tornerai solo se e quando sarai pronto.
-E come potrei dirvelo? quando uscirai da questa porta tornerai in un mondo che per me sarà morto e sepolto da sei miliardi di anni!- esclamò con voce rotta dal pianto.
-Ahrab, sei diventato un vero terrestre; ti ostini a non voler accettare quanto ben conosci: spazio, tempo, che differenza c’è? sono parole che nella nostra lingua non esistono più. Sono coordinate di calcolo e non grandezze fisiche reali. La distanza tra Kal e la Terra non è più insuperabile di quella esistente tra due pianeti agli estremi opposti dell’Universo. Si tratta solo di una distanza luce. In tutti e due i casi. Se e quando vorrai tornare, la tua nave è ancora a disposizione. E’ rimasta lì, sepolta nella sabbia australiana, in una zona cui nessuno si è mai avvicinato in tutti questi anni, protetta dagli scudi d’energia. Sono certo che saprai usarla, all’occorrenza.
-Addio, Zed.
-Addio, Ahrab.

Senza voltarsi, Zed uscì con il cuore pieno di tristezza per la scelta che il giovane amico non aveva espresso.
Pensò che doveva ancora continuare la sua ricerca e che forse un giorno sarebbe tornato indietro.
Mentre la porta dello studio di Jan si chiuse sulla Terra, una foglia cadde sul tetto della casa dove Ahrab era vissuto, su Kal.

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